L’attualità dei testi della prima Assemblea ecumenica europea impone un interrogativo: nell’anno del Signore 2009, Basilea vive perché è stata attuata, o è nostalgia di quello che avrebbe potuto innescare, ma non è stato?
di Luigi SANDRI
E’ un grande onore, per me, essere qui – invitato dal Consiglio delle Chiese cristiane di Milano – per ricordare, insieme ad altri due amici, l’Assemblea ecumenica di Basilea, a vent’anni dalla sua celebrazione. Un onore ma, anche, una responsabilità, perché è ben arduo, in pochi minuti, delineare adeguatamente quell’evento, parlare di quello che accadde poi, e riflettere sull’oggi. Darò dunque dei flash, affidando alla vostra benevolenza il necessario approfondimento.
Basilea era ed è
Con alcuni di voi qui presenti, presi parte alla prima Assemblea ecumenica europea. Parlo, dunque, come fortunato testimone, seppure non protagonista. A Basilea, insieme a molte e molti altri, provai una grande consolazione, che vorrei esprimere così: la sensazione di sentirmi a casa. Sapevo, ovviamente, di assistere (o partecipare? Io vi ero come giornalista: decidete voi quale sia il verbo più giusto!) ad una prima mai avvenuta, dunque ad un evento storico: infatti, quel convenire di cristiani delle varie Chiese europee, legati alle tre grandi famiglie cristiane del nostro continente – il Cattolicesimo, l’Ortodossia, la Riforma – non aveva precedenti. La gioia del ritrovarsi insieme di cattolici italiani e polacchi, ortodossi greci e rumeni e russi, luterani tedeschi e svedesi… fu perciò tanto grande che dimenticammo quasi l’inverno che ci aveva separati per secoli, e gustammo la beatitudine per quella primavera che lo Spirito santo ci regalava.
Allora, non scordiamolo!, l’Europa era spaccata in due blocchi contrapposti, anche se, ad Est, la presenza di Mikhail Gorbaciov alimentava molte speranze.
Noi non sapevamo, nel maggio ’89, che nel novembre successivo sarebbe caduto il muro di Berlino. Vivevamo dunque in spem contra spem. E con la coraggiosa iniziativa di Basilea le Chiese – dopo aver dato, nella storia, molte amare contro-testimonianze di lotte intestine, chiusure grette e profezie vuote – una volta tanto offrivano un contributo importante per dimostrare che una Chiesa altra, e un’Europa altra, erano possibili.
Formalmente, l’Assemblea di Basilea era composta da 700 delegate e delegati della KEK [Conferenza delle Chiese Europee – evanceliche e ortodosse] e del CCEE [Consiglio delle Conferenze Episcopali europee – cattoliche]; ma, attorno ad essi, ruotavano cinquemila persone, quasi espressione del popolo delle Chiese venuto a far loro corona (ciascuno, si badi, a sue spese!), e poi lieto di disperdersi tra i duecento stand che, in modo colorito, documentavano le moltissime iniziative ecumeniche in atto in Europa: sia per alimentare l’amicizia tra cristiani, sia per collaborare ad iniziative di solidarietà con gli impoveriti del Sud del mondo. Basilea, dunque, anche come esperienza di popolo convinto che l’ecumenismo non è un optional, ma passione costitutiva dell’essere Chiesa.
Rileggendo, per prepararmi a questa conversazione con voi, i testi finali di Basilea (il breve messaggio finale, e il corposo documento conclusivo), essi mi sono apparsi di una straordinaria attualità; tolti piccolissimi dettagli legati a quel preciso momento, sembrano scritti oggi. Dunque, Basilea che era, Basilea che resta.
Luci ed ombre del dopo-Basilea
Proprio l’attualità dei testi della I Assemblea ecumenica europea ci impone un interrogativo: nell’anno del Signore 2009, Basilea vive perché è stata attuata, o è nostalgia di quello che avrebbe potuto innescare, ma non è stato? Domanda complessa.
Che il seme gettato a Basilea – per il lavoro di tantissime persone ma, penso, un posto di onore nella nostra riconoscenza meritano i due co-presidenti dell’Assemblea, il cardinale Carlo Maria Martini, al quale va il nostro affettuoso saluto, e l’allora metropolita di Leningrado Aleksij, che ora vive nella pace del Signore – abbia provocato una svolta irreversibile lo dimostra il fatto che, dopo quella prima, nel ’97 vi è stata la seconda Assemblea ecumenica europea, a Graz e, nel 2007, a Sibiu, la terza. La carovana ecumenica si è dunque mossa, ha compiuto nuovi tratti di cammino, ha dischiuso altri orizzonti.
Ma, dopo che ci siamo ritrovati e ci siamo guardati negli occhi con fraternità e sororità, abbiamo dovuto constatare che tanta, tantissima era la polvere che la storia aveva depositato sui nostri abiti e sui nostri percorsi; e prendere atto di quanto fosse aspro raggiungere insieme la vetta dell’attesa riconciliazione.
A Graz, Aleksij, dal 1990 patriarca di Mosca, denunciò quelle che lui definì “aggressione “ e “invasione” delle sette e Chiese occidentali contro il territorio canonico della Chiesa ortodossa russa. Duro fu, in proposito, il braccio di ferro con Roma, anche a proposito dello status dei cattolici di rito orientale, chiamati “uniati” dagli ortodossi. Non entro, qui, nel merito della denuncia, ma la segnalo come punta di iceberg del difficile rapporto tra la Prima e la Terza Roma. Ma anche il rapporto tra la Seconda Roma, Costantinopoli, e la Chiesa russa, si è fatto più nervoso, dopo Basilea, dopo Graz e dopo Sibiu, per la questione della giurisdizione su alcune Chiese, come l’Estonia.
Però, proprio negli anni Novanta fummo testimoni di importantissimi eventi di riconciliazione. Il 31 ottobre 1999 ad Augsburg veniva firmata la dichiarazione con cui la Chiesa cattolica e la Federazione luterana mondiale siglavano un consenso su punti fondamentali della giustificazione, e cioè sul tema che, nel Cinquecento, aveva visto l’insuperabile contrapposizione tra Riforma e Controriforma. Da quell’accordo, però, nessuna conseguenza ecclesiologica, pur teologicamente fondata, è derivata; e rimane vietata – sul versante cattolico, non sull’altro – l’intercomunione.
In questi vent’anni sono affiorati sempre più due scogli che rendono perigliosa la navigazione delle Chiese, in Europa ma anche nel mondo, e invalicabile il muro delle loro contrapposte Eucaristie: il “chi è” della Chiesa, e dell’autorità nella Chiesa; e il rapporto Chiesa-etica.
Nel Duemila, nello stesso mese di agosto – il caso, o la Provvidenza?, giocano anche con le Chiese – a Mosca e a Roma, senza che l’una sapesse dell’altra, venivano emanati due documenti, l’uno dal Concilio [Conferenza] episcopale russo, l’altro dalla Congregazione per la dottrina della fede, che affrontavano nodali temi teologici. Affermava il primo: l’Ortodossia – l’insieme delle Chiese sorelle ortodosse – è/sono la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica proclamata nel Credo niceno-costantinopolitano; no, sosteneva il testo vaticano, è la Chiesa cattolica romana quella che sussiste nella Chiesa proclamata dallo stesso Credo. In radice, è la comprensione del ruolo del vescovo di Roma nell’ekumene il punto di collisione tra Cattolicesimo ed Ortodossia (oltre che con la Riforma). Un punto che è allo studio della commissione mista tra le due parti; ma non sappiamo quale ne sarà lo sbocco, anche perché Mosca, per contrasti con Costantinopoli, disertò, nel 2007, la riunione di Ravenna.
Oltre questa divaricazione – “scontata”, perché ben nota, e lasciata silente nella pur preziosa Charta oecumenica europea del 2001 – a Sibiu ne emerse limpidamente un’altra, e per così dire inedita: quella sulla comprensione della modernità e dell’etica. Almeno a livello di vertici, la Chiesa romana e quelle ortodosse (da Atene a Mosca, da Bucarest a Kiev) hanno un modo diverso, nel considerare la modernità, e il ruolo della coscienza nelle scelte concrete, da quello che, in generale, hanno le Chiese legate alla Riforma. Il punto in cui tale differenza si vede ad occhio nudo è il rapporto Bibbia/scienze umane/responsabilità personale, e poi l’interpretazione della legge naturale a proposito di tematiche nuovissime legate alle scoperte scientifiche: omosessualità, biotecnologie, testamento biologico, eutanasia… L’impossibilità, a Sibiu, per accordarsi come affermare l’inizio della vita – dalla «concezione» o dalla «nascita»? – testimoniano questa incomponibilità. Le Chiese sono insomma divise nella risposta ad una domanda cruciale: spetta ad esse annunciare e interpretare la legge naturale, o loro solo compito, del tutto diverso e irrinunciabile, è proclamare Cristo morto e risorto?
Basilea aveva intravisto la questione femminile. “Chiediamo alle Chiese di accrescere il coinvolgimento delle donne nei processi decisionali e nella vita della Chiesa…”, affermava il n. 84 J del testo finale. Però acuto fu il poi contrasto, a Graz, su se, e come, parlare di “ministeri” femminili. E quando, negli anni Novanta, la Chiesa d’Inghilterra iniziò le ordinazioni femminili, il gelo scese tra Roma e Canterbury, e tra Mosca e Londra.
Diventa ogni giorno più evidente quanto pesino la storia, e la cultura, sulle scelte pastorali delle Chiese, strette dalla necessità assoluta (“Pregate perché possa annunciare il mistero di Cristo, per il quale mi trovo in catene”, come affermava Paolo – Col 4, 2) di obbedire al Signore ma, anche, consapevoli – alcune più, altre meno – che molti loro no, pur solennemente proclamati, non erano e non sono comandamenti divini, ma interpretazioni discutibili e provvisorie gravate da situazioni contingenti.
Contemplando solo se stesse, difficilmente le Chiese riusciranno a guarire; ma forse lo sapranno fare se, come angolo prospettico dal quale valutare la realtà, si porranno nel cono di luce delle beatitudini e, come il Maestro, in stato di lavanda dei piedi delle persone impoverite, spogliate, violentate, soprattutto nel Sud del pianeta. Diceva, appunto, Basilea: “Come cristiani europei abbiamo una grande responsabilità per l’odierna crisi del mondo. Per questo chiediamo a Dio di perdonare il nostro peccato e di darci la forza di convertirci, per diventare strumenti della sua pace”.
Che desiderare, dunque, per le Chiese europee, a vent’anni da Basilea? Oggi, come allora: “Veni, Sancte Spiritus”.